La foto di copertina è generica
Davanti al Bambin Gesù ci ero passata tante di quelle volte da ragazza. Avevo sempre guardato quella struttura così imponente con il fare distratto e con la leggerezza di chi, godendo di ottima salute, pensa che certe cose capitino solo agli altri. Niente allora mi avrebbe mai potuto far sospettare che un giorno quelle mura sarebbero diventate così familiari e avrebbero fatto da scenografia ad una pagina (anzi facciamo pure un paio di capitoli) così importanti della mia vita.
Ma andiamo per gradi.
La mia storia comincia come per la maggior parte di noi sul lettino del ginecologo.
Ero al quarto mese, il primo giorno utile per sapere se fosse maschio o femmina.
Perché allora il massimo dei miei crucci era questo: conoscere il colore del corredino.
Rosa o celeste. Sono problemi … si sa …
Ero giovane, sana e salutista e il mio bimbo sarebbe stato sanissimo, come me. Non poteva essere diversamente.
Forse fu per questo che da principio non diedi troppo peso a quella sonda che indugiava … indugiava … indugiava, mentre il viso del ginecologo si incupiva .
C’è un problema.
Disse laconico il medico. Dapprima non capii. Scandii dentro di me quelle parole quasi a cercarne un altro senso, mentre quel suono continuava a rimbombarmi dentro distorto e metallico come in un film dell’orrore.
Il cuore non va.
E Improvvisamente calava il buio.
Chiamai mia madre al telefono e con un filo di voce dissi solo: è cardiopatica .
La A finale dell’aggettivo fu l’annuncio ufficiale dato alla famiglia che sarebbe arrivata una bambina.
Una femminuccia!! Proprio quello che volevo con tutta me stessa fino a quella mattina e del cui sesso ormai non mi importava nulla.
Avete sentito mai dire: l’importante è che siano sani? Ecco! Fissavatevelo bene in mente e non cancellatelo più!
Sorvolerò per non annoiarvi sull’infinità dei controlli successivi, i primi soprattutto volti alla ricerca di un ginecologo che ci dicesse che il collega si era sbagliato, che forse si era drogato. Chissà cosa aveva bevuto.
E invece no: le diagnosi successive non fecero altro che confermare aggravando la situazione: la cardiopatia era complessa, avrebbe comportato per lo meno tre interventi con alti rischi di mortalità.
La parola morte si riaffacciava tragica nella mia vita.
Venivo da una famiglia con un vissuto di profonda sofferenza: due delle mie sorelle sanissime erano morte bambine , a 4 mesi e 16 anni. Conoscevo perfettamente i solchi dolorosi scavati nell’animo da un bimbo che va per non tornare.
La paura di non farcela mi lacerava l’anima ma certe battaglie non le scegli, ti ci ritrovi in mezzo e puoi solo andare avanti.
Passarono i mesi tra i fiumi di lacrime che sgorgavano ad ogni referto e la speranza alimentata dai calcetti ben assestati che arrivavano dal mio pancione.
Il tempo era scandito dalle mie letture di medicina per decifrare quei paroloni criptici e le mie ricerche su quale fosse il centro migliore per partorire ed affrontare il tutto.
Ma mentre mi interrogavo se per il parto fosse meglio la grandiosità del Gemelli o l’eccellenza del Fatebenefratelli, Leila decise di dispensarmi dall’onere di tale gravosa scelta: una mattina mi svegliai in un lago di sangue, la placenta previa aveva ceduto.
Leila nasceva con cesareo d’urgenza , cardiopatica e pure prematura in un ospedaletto senza mezzi, assolutamente inadatto alla situazione .
Il panico totale. E non solo il mio .
Mi risvegliai dall ‘anestesia con tutti i medici agitati e chiusi a cerchio intorno a me. Non so se più incuriositi dal caso clinico o dalla concentrazione di eventi negativi.
La ginecologa ancora ansimante mi disse: “Mi ha fatto saltare una coronaria …”
Io preoccupata del suo stato di salute, tentai di giustificarmi spiegandole che avevo programmato altrove, poi anche il mio senso ironico ancora sedato si svegliò dall’anestesia e compresi che era una battuta .
Sorrisi ed annuì.
Così nacque Leila , che portava già il nome di una principessa guerriera e come un’eroina nell’incubatrice/navicella sfrecciò verso il Bambin Gesù.
Dopo 2 giorni, ancora dolorante firmai le dimissioni e la raggiunsi.
Non troverò mai le parole per descrivere le emozioni di quei giorni: vederla per la prima volta, così piccola fragile e sofferente; i tubicini impiantati ovunque in quelle carni tenere; Il mio senso di colpa e di impotenza; la sofferenza di tutti quei bambini che lottavano per vivere e spesso perdevano.
Immagini indelebili che conservo stigmatizzate in fondo al cuore, pronte a ricordarmi quando le ordinarie difficoltà del quotidiano mi sembrano insormontabili che i problemi, quelli veri, sono altri.
Al terzo di giorno di vita, mentre i bimbi sani festeggiano il loro arrivo a casa, Leila fu sottoposta a un cateterismo interventistico che le avrebbe consentito di prendere il peso necessario per affrontare il primo intervento.
E il primo intervento arrivò proprio il giorno in cui compiva il primo mese e fu il regalo più cruento ed immenso: le restituiva a suon di tagli e sangue la possibilità di vivere, che un Dio distratto o una natura beffarda le avevano precluso.
Il programma prevedeva che subito dopo si andasse a casa nell’attesa di raggiungere il peso di 10/12 kg indicato come congruo per la correzione .
Così però non fu.
Leila infatti rifiutava di nutrirsi e quel poco che ingoiava tramite sondino lo vomitava del tutto benché io tentassi ogni stratagemma per impedirlo. Ma soprattutto, nonostante il palliativo Leila continuava a desaturare raggiungendo picchi negativi tali da far impallidire anche gli infermieri più anziani, quelli che in anni di servizio hanno visto ormai di tutto.
Siamo corsi così tante volte in tic che ne ho dimenticato il numero. Persino a capodanno con i botti in lontanza e il mio cuore che sussultava al loro ritmo.
Il quadro cardiaco poi la rese facile bersaglio di ogni forma batterica. Come il più appassionato dei collezionisti, nei mesi che seguirono raccolse ogni tipo di infezione: bronchioli, bronchiti, polmoniti, non ne risparmiammo una.
Fino ad arrivare ad una notte tragica. Il corpo si ricoprì di macchie violacee, mentre tutta la parte destra si paralizzava. La diagnosi fu atroce e incontrovertibile: setticemia con ischemia cerebrale
Mi fu subito chiara la drammaticità della situazione.
Con gli occhi lucidi di lacrime, i medici mi prepararono al peggio. Dissero che difficilmente avrebbe superato la nottata.
In un cantuccio piangevo, piccola piccola, attendendo il triste epilogo.
E invece Leila con grande sorpresa superò la notte e gradualmente mostrò segni di ripresa.
Ora rimaneva di fare la conta dei danni cerebrali.
Timidamente mi avvicinai e le sussurrai qualche parolina con dolcezza. Mi guardò negli occhi e nonostante il corpo irrigidito mi sorrise. Fu un’esplosione di gioia infinta.
In in quel sorriso c’era tutto il mio mondo: Leila mi riconosceva, Leila c’era, c’era ancora e non mi importava niente dai danni subiti e delle difficoltà che ci avrebbero atteso per il recupero, perché un genitore lo sa che può toccare il cielo con la mano se nell’altra stringe il proprio bambino.
Nonostante quei momenti terribili si riprese velocemente e sebbene il peso fosse ancora lontano da quello auspicato, il timore di rivivere situazioni analoghe convinse i medici a procedere alla correzione.
Finalmente arrivava quel giorno.
Il 25 febbraio Leila nasceva alla vita, quella vera.
Ricordo la mia espressione beota ed incantata davanti al 100 di saturazione e il tempo passato a rimirare quella manine così meravigliosamente rosa.
La cianosi era già un ricordo lontano.
L’11 marzo dopo 10 mesi di ospedale andavamo a casa .
Uscivo di là con il più prezioso dei trofei.
FELICITA’.
Al quadrato, al cubo, all’ennesima potenza. Di quella che ubriaca.
Sembravo impazzita. Avevo voglia di cantare a squarciagola, di abbracciare qualsiasi sconosciuto mi venisse incontro, di baciare in bocca quella vecchia signora, di ballare una tarantella in mezzo al traffico con la severa guardia all’ingresso.
Mi limitai ad urlare con tutto il fiato che avevo in gola davanti agli occhi incuriositi dei passanti e lo sguardo imbarazzatissimo di mio marito che mi riportava all’ordine indicandomi il reparto di neurologia e psichiatria poco distante.
Mantenni quello stato euforico per quasi un anno e qualcuno che mi conosce bene è pronto a dire che ancora un po’ di quella droga mi scorre nelle vene.
Tornati a casa assaporavamo il gusto dolce della normalità.
Avete mai notato che normalità fa rima con felicità? Sappiate che non è un caso.
E la normalità fu nostra gioiosa compagna fino ai suoi sette anni, fino a quando cioè da un controllo emerse una nuova stenosi. Si rindossavano le armi e si partiva nuovamente per la guerra.
Questa volta c’era una nuova difficoltà: Leila era grandicella e cosciente e diventava tanto urgente quanto difficile spiegarle cosa e perché le stesse succedendo .
Il periodo che seguì non fu facile: Leila alternava momenti di matura consapevolezza ad altri di rabbiosa intolleranza.
Mi capitava di sorprenderla mentre teneramente faceva coraggio all’amico immaginario: un cavallo cardiopatico pure lui e come lei prossimo all’intervento.
A volte invece raccoglievo il suo proclama all’umanità intera : che bisognava finirla con questi interventi e che lei da grande avrebbe inventato il Leilix, una pastiglia rosa e al sapore di fragola con la prodigiosa capacità di aggiustare i cuori.
In breve fu di nuovo sotto i ferri ma questa volta i tempi di ripresa furono straordinari: dopo 5 giorni era a casa, dopo 10 in bicicletta, dopo 20 in piazza a giocare a calcio con gli amici.
Oggi Leila è una bambina allegra, gioiosa, socievole e brava a scuola.
Il futuro sappiamo che ci riserverà altre battaglie ma questo non ci impedirà di essere felici, perché se è vero che queste esperienze ti fanno toccare con mano il dolore, è altrettanto vero che insegnano il vero senso della vita. Perché insieme io e lei abbiamo scalato difficoltà alte come montagne ma da qui, così in alto, il panorama è davvero bellissimo.
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